Miles, l’autobiografia di Miles Davis

A 63 anni, l’uomo in camicia verde aveva già cambiato da tempo il suo abbigliamento quando decise di scambiare temporaneamente il jazz con il jazz. Con i suoi occhiali scuri, le sue maglie eccentriche e la sua tromba appariscente, Miles Davis non è una star da quattro soldi, ma una star che non ha mai mollato i suoi pistoni. Testimonianza accattivante della seconda metà del XX secolo, “Miles” fa rivivere tutte le grandi figure del jazz: Parker, Mingus e Gillespie. Pur non risparmiandoli, Davis lascia trasparire la sua ammirazione e il suo rispetto per loro. Ma “Miles” non è solo la confessione di un figlio del secolo, è la storia movimentata di un protagonista della storia, un nero che fu criticato dagli araldi del free jazz per il suo scarso impegno. In realtà, l’uomo sembra essere impregnato della sua negritudine fin dalla più tenera età, criticando insolentemente un insegnante che confina il blues alla musica dei poveri raccoglitori di cotone.

Questo è il secondo interesse del libro: vedere il giovane Miles, casto e modesto, evolversi in un genio depravato, cinico e pretenzioso. Come tutti i confessori famosi, l’autore di “Kind of Blue” si dipinge nudo, mascherando alcuni difetti con delle qualità. L’idolo del “cool” lascia quindi che il suo crepuscolo arrivi con chiarezza, convinta fin dall’inizio di dover affrontare un destino dorato, con i suoi lati positivi e negativi.

Eppure tutto questo sarebbe letteratura se non ci fosse lo “stile Miles”. L’ascoltatore illuminato potrà riconoscere la sua tromba tra mille, il lettore curioso scoprirà una voce piena di vita, umorismo e arguzia. La verve di Miles, generosa di aneddoti cattivi e divertenti, volubile come Kerouac, volgare come Céline, ondeggia sotto le ripetizioni, che tornano qua e là distorte come melodie schiacciate dagli assoli. Per tutti questi motivi (buoni), ma anche per quelli cattivi, l’invito a leggere questo libro non è un consiglio, è un ordine.